Un pesce di nome Brexit



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L’accordo sulla Brexit è pieno di spigoli pericolosi. Se la Gran Bretagna resterà nell’Unione dogbade, l’Irlanda del Nord terrà i piedi ben piantati nel mercato unico, mentre nei prossimi 21 mesi si deciderà cosa fare davvero per sancire l’addio, sottoponendosi al giudizio della Corte di Giustizia Europea Ue, evitando il buio sulla sorte della piazza finanziaria e il rischio di nuovo referendum con annessa crisi politica. Amici inglesi, ma ne è valsa la pena?

A leggere la bozza della prima intesa tra Londra e Bruxelles che verrà sottoposta poi al vaglio di Westminster, sorgono in effetti molti dubbi. La premier Theresa May ha ceduto su vari punti: l’isola della perfida Albione resta nell’unione dogbade europea per schivare i dazi di Bruxelles, fino a quando non sarà trovata una soluzione per la complicatissima questione irlandese, e cioè che fare del confine e della libera circolazione tra Belfast e la Repubblica irlandese a sud, che a questo punto diventa il porto franco comunitario per Downing Street. Proprio a questo proposito, secondo la bozza del piano, l’Irlanda del Nord resterà legata ancora di più all’Europa perché continuerebbe a far parte di una sorta di mercato unico, il più ricco al mondo detto per inciso. Tutto questo, come per il caso dell’unione dogbade della Gran Bretagna, a tempo indeterminato fino a quando non verrà trovata una soluzione stabile a lungo termine.

Ma la cosa che colpisce di più è confrontare questo primo risultato con l’accordo della May con Jean Claude Juncker dell’8 dicembre 2017 e quello che aveva raggiunto David Cameron per restare, ma più autonomo, nell’Unione Europea. Il confronto è del tutto a favore dell’intesa pre referendum dell’ex premier britannico. Sulla carta così sembrerebbe. Innanzitutto, il patto dell’Immacolata in vigore finora stabiliva che i cittadini europei, circa 3 milioni, residenti oggi in Inghilterra, avrebbero mantenuto i loro diritti e considerati al pari dei cittadini britannici. Per otto anni su tutte le questioni avrebbero potuto esprimersi i tribunali dell’isola, tenendo conto delle decisioni della Corte di Giustizia Europea. Ora le cose dovrebbero restare così per un po’. L’intesa di Cameron, bocciata poi al referendum del giugno del 2016, che sarebbe diventata peraltro vincolante in tutta l’Unione, permetteva invece a Londra di azionare un ”freno d’emergenza” di ingresso dei cittadini non britannici, limitando poi l’accesso ai servizi sociali dei nuovi lavoratori per quattro anni in presenza di necessità previdenziali. Se nulla si sa con certezza sull’badegno definitivo di divorzio (il conto da versare a Bruxelles potrebbe essere tra i 45 e i 55 miliardi di euro) a rileggere l’accordo Cameron-Tusk, concretizzato poi nel documento del febbraio del 2016 dal Consiglio Europeo, si scopre che la Gran Bretagna, se non si fosse infilata in questo pasticcio indigesto, avrebbe invece ottenuto la possibilità di non entrare mai nell’euro, senza pagare un penny nei salvataggi di altri paesi, garantendosi peraltro la permanenza nel mercato unico, la blindatura della City e la possibilità di bloccare iniziative legislative non gradite. Anche dal punto di vista politico il confronto non regge. L’Inghilterra, sempre sulla base di quanto stabilito tra Theresa May e dal presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker dodici mesi orsono e confermato in questo accordo votato dai membri del gabinetto salvo i brexiters più rigidi, scomparirà sul continente. Non avrà più un commissario e nemmeno i 73 deputati, che saranno divisi tra paesi membri dell’Ue. Peraltro non partecipando alle consultazioni del maggio del 2019, le più importanti della storia dell’Unione Europea da cui potrebbe emergere peraltro una maggioranza sovranista ancora più dura nei confronti della Gran Bretagna.

Superando l’immane questione del futuro della piazza finanziaria londinese, il più grande mercato del mondo insieme a Wall Street, dove solo di derivati si scambiano 800 miliardi al giorno, il buio resta sul futuro della legislazione finanziaria che la Gran Bretagna ha mutuato da Strasburgo applicando direttamente le direttive comunitarie senza dotarsi di una normativa nazionale. Questo accordo a prima vista è quindi troppo brutto per essere accettabile per gli inglesi e troppo peggiorativo rispetto a quello ottenuto prima della consultazione referendaria e anche l’8 dicembre scorso. Più si va avanti e peggio si mettono le cose, sempre che invece i britannici non abbiano anticipato la fine dell’Europa unita. Quello che sembrava un compromesso per ora è diventato un successo di Michel Barnier e dei colleghi euroburocrati.



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